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Bambine “Wall Flower”: l’infanzia della dipendente affettiva

Bambine "Wall Flower": l'infanzia della dipendente affettiva | Dipendiamo.blog

“Da piccola mi sentivo carta da parati. A due anni dovevo essere indipendente, arrangiarmi da me perché c’era mia sorella neonata che aveva bisogno di cure ed attenzioni”. Roberta, 47 anni

L’espressione “wall-flower”, ovvero “carta da parati”, è quella che meglio sintetizza i vissuti sperimentati dalla dipendente affettiva durante l’infanzia. Nel ricostruire la propria storia, la dipendente affettiva visualizza se stessacome una bambina invisibile, una bambina che ricorda la presenza di troppi problemi in famiglia che impedivano ai genitori di accorgersi delle sue esigenze emotive… e di lei (Peabody, 2005).

La letteratura riferisce che la storia familiare di queste pazienti è costellata da esperienze dolorose e da eventi critici che hanno richiesto loro di far fronte a problematiche gravi dei genitori:un padre alcolista e/o violento, una depressione della madre, lutti mai elaborati…

Questi eventi danno origine a dinamiche relazionali piuttosto disfunzionali, con il prevalere di posizioni protettive nei confronti dei genitori o di una passiva rassegnazione e quindi diuna muta sofferenza.

I modi in cui queste bambine cercano di “salvare” la loro famiglia possono essere sostanzialmente di due tipi:

  • possono rendersi invisibili, come una “carta da parati” e ritrovarsi da adulte con una sofferenza intorpidita, difficile da gestire
  • essere brave, vincenti nel mondo esterno, brillanti, entusiaste, perché questo le aiuta a riempire il vuoto dentro di sé e a coprire rabbia, paura e tensione

Apparire felice diventa prioritario rispetto al sentirsi felice.

Racconta Roberta:

“Io sono quella che è sempre stata considerata forte da tutta la famiglia. Mia sorella era da seguire, accudire… Io invece ero la brava, indipendente. Anche oggi non posso permettermi di dire che sto male. Non ci crederebbe nessuno”.

Entrambe le posizioni – più attiva o più passiva – sembrano essere accompagnate dal desiderio di superare, cancellare, rimuovere tale sofferenza, ma anche da una devastante sensazione di impotenza e frustrazione: l’incontro con il partner apparirebbe, quindi, come una sorta di antidoto magico a questa antica sofferenza.

Un altro aspetto che caratterizza l’infanzia della dipendente affettiva è la sua triangolazione nelle dinamiche di coppia.

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La figura materna

La bambina molto spesso diventa la confidente di una madre lamentosa che rende partecipe la figlia di tutte le sue frustrazioni come moglie e come donna.

Romina racconta:

“Mia madre, nelle sue continue confidenze, mi restituiva in continuazione un’immagine mostruosa di mio padre. Non si accorgeva della sofferenza che mi consegnava e del malessere che alimentava in me, ancora piccola, nell’ascoltare il suo dolore”.

Nonostante le lamentele la madre tende però a non lasciare il partner offrendo così alla figlia un modello confondente e passivo rispetto alla gestione della propria sofferenza.

Dirà Franca, un’altra partecipante del trattamento:

“Sognavo di portare via un giorno mia madre, massacrata di botte da mio papà. Quando finalmente uscii di casa, chiesi a mia madre di seguirmi. Lei mi rispose di no. Io mi sentii tradita”.

La figura paterna

Il padre invece, emotivamente distante dalla bambina, tende a non accorgersi di questa “scomoda” posizione della figlia e quindi a non intervenire per spezzare la dinamica relazionale nociva tra lei e la madre.

Rosa:

“Mio padre per me era un estraneo. Non ricordo di essermi mai confidata con lui. Lo conoscevo solo attraverso gli occhi di mia madre”.

In sintesi, tra le peculiarità della storia personale e familiare condivise tra chi è coinvolto in un problema di love addiction ci sono:

  • la provenienza da una famiglia in cui sono stati trascurati i bisogni emotivi della persona (soprattutto in età evolutiva);
  • la triangolazione nelle dinamiche di coppia;
  • una storia familiare caratterizzata da carenze di affetto autentico che tendono ad essere compensate attraverso una identificazione con il partner, un tentativo di salvare lui che in realtà coincide con un tentativo di salvare sé stessi;
  • una tendenza a riattribuirsi nella propria vita di coppia, più o meno inconsapevolmente, un ruolo simile a quello vissuto con i genitori che si è tentato a lungo di poter cambiare affettivamente, in modo da poter riprovare a ottenere un cambiamento nelle risposte affettive pressoché inesistenti ricevute nella propria vita;
  • l’assenza nell’infanzia della possibilità di sperimentare una sensazione di sicurezza che genera un bisogno di controllare in modo ossessivo la relazione e il partner, nascosto dietro un’apparente tendenza all’aiuto dell’altro.
Maria Chiara Gritti: Psicologa e psicoterapeuta a Bergamo, esperta nel trattamento della dipendenza affettiva, da anni conduce gruppi terapeutici sulla love addiction. Ideatrice di un percorso di guarigione innovativo sulla dipendenza amorosa, tiene corsi di formazione rivolti a psicologi per diffondere l'applicazione del suo metodo di intervento. www.psicologobergamo.com
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