Dopo aver visto nei precedenti articoli l’attaccamento sicuro e l’attaccamento ambivalente, continuiamo oggi, parlando di “attaccamento evitante”, l’approfondimento sulle tipologie di attaccamento familiare, che come anticipato nei precedenti articoli, sono la prima forma di legame e quindi la base per acquisire la capacità di amare in modo sano.
Il “bambino ideale”, il “bravo ometto”, la “piccola donnina” sono definizioni che alcuni pazienti riferiscono rispetto a se stessi; frasi ripetute quando erano piccoli da genitori, nonni, parenti. Me lo raccontano spesso con orgoglio, con la soddisfazione di sapere di non aver mai dato un problema ai propri genitori.
Oggi sono adulti con una immagine di sé forte, autonoma, non bisognosa; ma è un falso Sé, una difesa, un’illusione per proteggersi dal profondo dolore di dover ammettere a se stessi di non essersi mai sentiti davvero amati.
Chi sono i bambini con l’attaccamento evitante
Un bambino perfetto, un piccolo adulto è un bambino che soffre!
Tipicamente sono bambini che quando vengono lasciati all’asilo non piangono, non protestano, vanno a giocare apparentemente tranquilli. Al momento del ricongiungimento ignorano il genitore apparendo più interessati ai giochi che all’adulto. Sono autonomi e indipendenti, ma in una modalità autarchica che fa capire all’adulto che non hanno bisogno. Sono bambini che non disturbano.
Ben nascosto dietro a questa facciata c’è un dolore antico e profondo: la consapevolezza di essere dovuto diventare un bravo bambino perché altrimenti non sarebbe stato amato.
Il motivo di tale comportamento è dovuto al fatto che nel loro vissuto familiare imparano ben presto che non c’è spazio per i loro bisogni, per le loro paure, per le loro sofferenze. I caregivers non sono in grado di tollerare le loro richieste di vicinanza e accudimento e mettono in atto comportamenti rifiutanti o rabbiosi.
Per esempio, se il bambino si sveglia durante la notte per un brutto sogno e cerca il conforto nei genitori viene sgridato o deriso o le sue paure vengono sminuite.
Similmente, se il bimbo cade e si fa male, il genitore non offrirà accudimento ma lo sgriderà o gli dirà di arrangiarsi.
Perché si sviluppa l’attaccamento evitante
La frase più tipica che molti uomini mi riportano della loro infanzia è “Non piangere o mi arrabbio. Gli ometti non piangono”
I bambini sviluppano l’attaccamento evitante non solo perché i loro sentimenti negativi non vengono accettati dagli adulti ma, ancora peggio, rifiutati.
Per un bambino non c’è niente di più doloroso del sentirsi rifiutato dalle persone che ama e l’unica possibilità per la sopravvivenza emotiva che ha in questi casi è imparare a non chiedere; imparare a fare a meno dell’aiuto, imparare a cavarsela da solo.
I genitori di questi bambini trasmettono il messaggio “ti amo solo se non mi disturbi, se non mi fai richieste, se mantieni le distanze”.
Normalmente da grandi raccontano di famiglie apparentemente perfette, ma è solo una idealizzazione, non sono in grado di ricordare esempi che supportino le loro affermazioni.
“…mia mamma era sempre presente, affettuosa, mi aiutava quando avevo bisogno. Ora non ricordo degli episodi, non mi viene in mente niente, ma so che era così…”.
In realtà sono famiglie dove gli affetti e le emozioni fanno fatica a circolare.
Quali sono le domande da farsi per evitare di sbagliare?
Una volta cresciuti, questi bambini saranno domani partner distanzianti, non in grado di ingaggiarsi in relazioni intime appaganti, saranno percepiti sempre come sfuggenti.
È difficile se si è un genitore evitante riconoscersi in questa dinamica perché non c’è intenzionalità né desiderio di ferire i propri figli ma i danni che si possono fare sono molti. Possiamo come sempre però provare a “leggere” il comportamento dei bambini che ci parlano più con le azioni che con le parole.
Per cui potremmo chiederci:
Come si comporta mio figlio quando è triste / arrabbiato / spaventato? Di solito viene a raccontarmelo? Mi chiede aiuto? Oppure tende a tenersi le emozioni dentro?
Quando si fa male va da un adulto per farsi medicare o consolare? O fa finta di niente “facendo il duro”? Di solito è capace di chiedere aiuto o tende sempre a cavarsela da solo?
E a noi stessi proviamo a chiedere “come mi sentivo io quando da piccolo DOVEVO cavarmela da solo? Avrei preferito qualcuno mi stesse vicino quando avevo paura?”
Se riusciamo a rispondere con molta onestà a queste domande potremo fare molto per aiutare i nostri figli ad avere più fiducia in noi e in se stessi!