Pochi giorni fa, ho avuto il piacere di assistere, a Modena, ad un incontro con Chiara Gamberale (maggiori informazioni), a un mese circa dall’uscita del suo ultimo romanzo,“L’isola dell’abbandono”, edito da Feltrinelli.
Come sempre i libri ci richiamano, e questo titolo ha subito catturato la mia attenzione, come pure la frase riportata sul retro del romanzo:
“Se sapessimo di che cosa abbiamo bisogno, non avremmo bisogno dell’amore”.
L’amore è realmente qualcosa di cui abbiamo bisogno perché sentiamo che ci manca qualcosa?
Così Chiara Gamberale ha risposto a questa domanda, in una recente intervista:
“Non credo che l’amore sia destinato a colmare tutti i nostri buchi e, anzi, quest’illusione rischia di farci e di fare all’altro del male… Ma credo che sia l’unico strumento a nostra disposizione per conoscerci meglio e per crescere.”
Se ti dico abbandono, tu…
L’isola dell’abbandono è ambientato per la maggior parte a Nasso (Naxos), isola che fu teatro dell’abbandono più famoso della storia: quello di Teseo che, dopo l’impresa contro il Minotauro a Creta, piantò “in asso” Arianna, che lo aveva aiutato. Da questa storia pare l’isola abbia preso il nome.
È un romanzo cheparla di cambiamenti (“traslochi dell’anima”, come li ha definiti Chiara Gamberale), di un amore che finisce, di una morte e di una nascita, tutte esperienze che ci comportano, nella vita, il lasciare qualcosa per andare verso qualcos’altro.
Ed è ambientato su un’isola, una terra lontana dalle altre, ma anche l’unica baciata dal mare in tutte le sue parti.
È una storia che ci fa comprendere come nell’abbandono ci possa essere assenza, ma anche abbondanza, dipende da quali occhiali vogliamo indossare per vivere questa esperienza. E parla anche di come sia difficile abbandonarci, lasciando il controllo e la paura, per vivere appieno.
Nel libro “L’isola dell’abbandono”, in primo piano vi è il tema della Dipendenza Affettiva di cui soffre la protagonista, Arianna, un’illustratrice di favole e fumetti per bambini. Arianna, è più brava ad occuparsi degli altri che di sé stessa, ed è in balia di figure maschili che condizionano la sua vita, e per le quali alterna i ruoli di “crocerossina”o “ammalata”, a seconda della necessità.
A lui è ispirato il protagonista della striscia settimanale di fumetti realizzata da Arianna, Pilù, un coniglietto rosso e blu che è dotato di uno strano termometro a forma di carota, l’umorometro, che misura il suo umore.
Pilù, proprio come Stefano, alterna stati d’animo con grande rapidità ed è totalmente disequilibrato.
Occuparsi dei mostri di Stefano consente ad Arianna di non occuparsi di ciò che brucia dentro di lei.
Riferendosi a lui, queste sono le sue parole:
“Che ci devo fare? La sua insanità mi interessa sempre e comunque più della sanità di tutti gli altri”.
Chi soffre di Dipendenza Affettiva è attratto fatalmente da questa altalena emotiva e da questa intermittenza che permette, apparentemente, di sentire la vita, ma che, contemporaneamente e realisticamente, la toglie.
“L’effetto Stefano lo conosceva bene: una sensazione di impotenza che la faceva sentire morta e più viva che mai nello stesso identico momento. Era come in quei giochi della “Settimana Enigmistica”: aveva chiari tutti i puntini, tutti i motivi per cui si era innamorata di lui, ma non riusciva mai a unirli fra loro per realizzare chi fosse la persona di cui si era innamorata”.
Arianna svolge il ruolo di madre per Stefano: questo rapporto, così come in tutti i casi di Dipendenza Affettiva, non c’entra nulla con l’amore di una donna per un compagno, ma piuttosto è il remake di un vecchio film girato da bambini.
“L’estenuante disponibilità a comprendere, anche e soprattutto dove sarebbe stato naturale dispiacersi, era qualcosa che non aveva a che fare con l’uomo che aveva accanto, ma con il bambino – amato troppo, non amato, amato male – che quell’uomo era stato”.
La storia di Arianna e Stefano si conclude sull’isola di Naxos, durante una vacanza, dove Arianna viene “piantata in asso” da Stefano, che sparisce improvvisamente con un’altra donna appena conosciuta.
“Mi ero innamorata di un uomo impossibile per affidare a lui la responsabilità di ammalarmi la vita, anziché accettare che è tutta roba mia, che sono io, solo io, che non so giocare, non so nemmeno da dove si comincia per mirare a quel risultato finale, quel risultato fatale – essere felice?”
Quando la consapevolezza comincia a farsi spazio nella mente di Arianna, dopo settimane di dolore in cui vive sull’isola in totale apatia a seguito dell’abbandono di Stefano, appare un nuovo incontro sul suo cammino.
“Alla fanciulla abbandonata venne in aiuto Dioniso che, per consolarla, la cinse con una corona e la mandò in cielo”.
Il terzo capitolo del libro si apre con queste parole di Ovidio, tratte da “Le metamorfosi”, per introdurre l’incontro con Dì, che avviene inaspettatamente sull’isola di Naxos. Dì è un surfista che sta ristrutturando il ristorante dei suoi nonni. Dì è un uomo di costruzione, un uomo sincero, che ascolta Arianna, che sa ringraziare per ciò che ha, che la guarda come una donna, pur avendo la capacità di tornare bambino, che è interessato a ciò che le piace. Un uomo che resta. Tutto questo è tanto, troppo per Arianna.
Per incontrare nel profondo un uomo “risolto” occorre essere donne risolte, e Arianna ha ancora della strada da fare. È la prima ad abbandonare sé stessa e non è ancora pronta per amare.
L’Isola dell’abbandono e il masochismo della dipendente affettiva
“In questa storia apparentemente semplicissima, si indaga in realtà qualcosa di molto profondo e doloroso: la paura di perdere chi amiamo, il rischio che quella paura si trasformi in una pericolosa profezia che si autoavvera, la reciproca dipendenza fra chi è terrorizzato dall’abbandono e chi è incline all’ambiguità, alla fuga. C’è il cuore stesso di un meccanismo sado-masochista nella necessità di legarsi proprio a creature destinate a deludere, e a concedere lampi di accecante felicità, ma al costo perverso di una febbre a quaranta”.
Arianna e Dì iniziano una relazione, ma il vuoto, inesorabilmente, arriva a riprendersi quello che è suo. Durante il Capodanno, ad Arianna arriva una telefonata dalla donna sparita con Stefano che la informa della morte di lui.
Questo apre in Arianna una voragine. Con Stefano muore una parte di lei, quella parte bambina che ama giocare a “vittima e persecutore”, quella parte che non vuole crescere o cambiare.
Arianna abbandona Naxos e Dì, e ritorna a casa. Si occupa di lei, in questo difficile passaggio, Damiano, lo psicologo di Stefano che, nel tempo, a sua volta, diventa una presenza importante nella sua vita.
“Damiano sostiene che io abbia una dipendenza dal vuoto. Da quello che non c’è.”
Dopo un periodo in clinica per riprendersi dal lutto, Arianna intesse una relazione con Damiano, che però è sposato. I due diventano amanti.
Si ripresenta così il tema del masochismo della dipendente affettiva, dell’attrazione verso situazioni complicate, che non portano alla felicità. Lo scegliere costantemente di “farsi del male” porta la dipendente a rivivere gli schemi “rassicuranti” vissuti nel passato, a perdersi in un labirinto conosciuto.
La storia tra Arianna e Damiano dura parecchi anni fino a che arriva un figlio a cambiare nuovamente le carte in tavola e a portare la protagonista a chiedersi: è davvero mia la vita che chiamo mia? Un figlio impone un nuovo cambiamento ad Arianna, e una paziente attesa che una dipendente affettiva ha molta difficoltà ad accettare.
Damiano lascia così la moglie, ma Arianna, che ora avrebbe per sé il padre di suo figlio, non è convinta di vivere con lui, e sente l’urgenza di ritornare su quell’isola, Naxos, dove ha lasciato forse l’unico uomo che l’ha veramente amata.
Il coraggio di restare: dire “sì” alla vita
“Io ero la vera surfista, fra noi. Troppo abituata a stare sulla riva ad aspettare i cavalloni, per riconoscere il valore del mare quando è calmo”
Quanto è difficile restare quando l’attrazione è verso l’irraggiungibile, verso qualcosa che non c’è, quando l’amore è perennemente atteso e mai vissuto realmente. Il rifiuto verso ciò che è facile ottenere è una costante per la dipendente affettiva, un’abitudine irrinunciabile che deriva dal passato. Ma vivere nella mancanza ci preclude le porte dell’amore, e ci apre quelle della paura.
Ecco perché, per guarire, è necessario passare attraverso la paura stessa e sperimentare più e più volte la capacità di restare. Accettare che siamo fatti di tutte le esperienze che abbiamo vissuto, ed anche di quelle vissute dai nostri antenati. Restare in una buona relazione, con coraggio e determinazione, anche quando potranno avvertirsi i segnali di stanchezza dovuti alla mancanza di oscillazioni emotive, è sintomo di crescita, per spezzare la catena del dolore e valorizzare quello che si ha, a partire dalle piccole cose.
E anche Arianna lo capirà: capirà che il periodo di lutto ha un termine e che può finalmente vivere bene nel presente godendo di ciò che ha, suo figlio e l’uomo con il quale vale la pena di restare, godendo delle occasioni che la vita le ha donato per evolvere.
Le pagine del romanzo L’isola dell’abbandono vibrano di forti riferimenti autobiografici. Chiara Gamberale afferma:
“Io soffro di sindrome dell’abbandono, fin da quando ero bambina. Ogni abbandono che ho subito mi ha straziata, mi ha costretta, nel bene e nel male, a diventare una persona diversa. E volevo finalmente raccontare proprio questo. Quanto è straziante venire abbandonati. Ma anche raccontare che, dopo un abbandono, può esserci una resurrezione. E rischiamo di diventare persone migliori di come eravamo”.
La lettura di questo romanzo mi ha lasciato addosso un fresco sapore “di nuovo”, ma anche di amore antico.
E la consapevolezza rinnovata che siamo fatti di tante parti che provengono dai nostri vissuti, che possono riunirsi armoniosamente per risorgere in ciò che siamo oggi.
Abbandoniamoci, quindi, alle onde di un mare calmo e iniziamo, da qui, una nuova vita! Una vita di resurrezione.
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