Quando per la prima volta ho provato a guardare Euphoria, una serie televisiva creata da Sam Levinson, ho interrotto la puntata a metà.
Che mi avessero consigliato una serie molto ben fatta, è stato chiaro da subito: realistica – anche troppo – e curata nei minimi dettagli –le scene, la musica, il trucco, in Euphoria tutto è eccessivo ed eccessivamente curato dal punto di vista estetico.
Ma era anche pesante.
Per evitarci sorprese, prima di ogni puntata, la serie ci informa subito dei suoi contenuti:
“violenza, nudità e temi sessuali che potrebbero risultare disturbanti agli spettatori”
È stato senza dubbio disturbante, e questa pesantezza è ciò che mi ha impedito per almeno un mese di andare oltre quella prima mezz’ora.
Euphoria, una serie cruda che entra nella mente dei ragazzi
Euphoria non ha peli sulla lingua.
Parla di amore, sesso, sofferenza. È onesta, cruda e a tratti violenta. Mostra apertamente pornografia, abuso di droghe e violenza fisica.
Ma Euphoria è, prima di tutto, una serie sulla dipendenza. Mi è stata consigliata per via del mio interesse per le dipendenze – non solo la classica dipendenza da sostanze, ma anche ogni altra forma di dipendenza; mi è stata presentata come una serie sulle dipendenze, e così io la presento adesso.
La serie ruota attorno a Rue (interpretata dall’attrice Zendaya), una ragazza particolarmente sensibile, appena tornata a casa da un centro di riabilitazione dopo essere quasi morta per overdose.
Ogni episodio è strutturato sulla vita di un personaggio diverso, narrata da Rue, che fa da narratrice onnisciente; sembra quasi che, quando è “parecchio fatta”, diventi sensitiva, e riesca a vedere –e a mostrarci- le vite delle persone attorno a lei, dalla loro infanzia al loro presente, con i loro fondamentali drammi e ciò che li ha resi le persone che sono oggi.
Tutto è descritto con poche parole, concise e d’impatto. Durante quei brevi racconti, che racchiudono l’essenza di vite intere, accompagnati da immagini talvolta disturbanti, noi viaggiamo con Rue, entriamo nella mente di quei ragazzi, proviamo quello che loro provano e percepiamo il mondo come loro lo percepiscono.
Questo stratagemma ha permesso al regista di condensare in otto episodi informazioni complesse sulla vita dei sette personaggi principali, e di addentrarsi nella loro sofferenza, nelle loro motivazioni, e in fin dei conti, nelle loro dipendenze, che coesistono e assumono sfumature diverse in ogni personaggio, lasciandoci così, alla fine di ogni episodio, stupefatti e arricchiti.
La storia di Rue, il primo personaggio di Euphoria
Rue è la prima dipendente della serie, e nel senso più tradizionale del termine.
La vediamo nella prima puntata, dopo un percorso di riabilitazione, correre a comprare droghe varie dal suo amico e spacciatore Fezco (Angus Cloud); la lasciamo nell’ultima puntata fatta, in preda ad allucinazioni, mentre balla e sullo schermo scorre la sua vita, e quella delle persone che ama.
Rue è sensibile… forse troppo. Il padre è morto di cancro pochi anni prima; già mentre è malato, a letto, lei inizia ad assumere i narcotici che in casa abbondano. A circa cinque anni le è diagnosticato un disturbo ossessivo-compulsivo e possibile disturbo bipolare.
Per qualche anno continua ad assumere farmaci, poi diventa adolescente; a quel punto, automedicarsi con droghe illegali diventa più facile. La droga, soprattutto per una persona che si affaccia alla vita adulta, sembra più efficace nel contenere quell’ansia insostenibile che pervade “ogni secondo di ogni giorno”, e che lascia semplicemente esausti.
Specialmente quando, come Rue, non si ha a disposizione nessun tipo di supporto emotivo. Il dramma di Rue è l’essere diversa, intelligente e sensibile, in un mondo –soprattutto quello statunitense- che alla sensibilità non lascia spazio.
Travolta da tutto, Rue si lascia andare e sviluppa una dipendenza da droghe, perché, per usare le sue parole
“non ho creato io questo sistema, né l’ho mandato io a puttane”
Jules, il primo amore di Rue
Già nella prima puntata conosce Jules, una ragazza transgender, appena arrivata in città, di cui si innamora.
Jules è piena di vita, bella e originale; ha tanti progetti per il futuro, sogna una carriera nel campo della moda, sogna di vivere a New York, di essere accettata e amata.
Come Rue, è profondamente danneggiata: anni prima è stata lasciata dalla madre, contro la sua volontà, in un ospedale psichiatrico, per via delle sue tendenze autolesionistiche e depressive. Adesso vive con il padre e continua la sua transizione all’altro sesso, sperimentando nel frattempo la sua sessualità nel campo Bdsm, andando a letto con uomini di solito più vecchi, sposati, e violenti –perché conquistare quegli uomini significa conquistare la femminilità, così almeno lei lo descrive…-.
Rue e Jules, lasciate a se stesse, diventano amiche inseparabili: trovano un sostegno l’una nell’altra, si aiutano e si amano. Rue, messa di fronte a un ultimatum, smette di assumere droghe, preoccupata che possano interferire o addirittura rovinare il suo rapporto con Jules, che è sinceramente preoccupata per l’amica. Jules purtroppo non ricambia i sentimenti di Rue: almeno, non nel modo in cui lei vorrebbe.
Infatti Rue inizia ad essere dipendente da Jules, sostituendo chiaramente una dipendenza a un’altra. Jules la aiuta a colmare quel vuoto che altrimenti riempirebbe con la droga; senza Jules, ricadrebbe nel vortice della tossicodipendenza.
Lo sponsor del suo gruppo di supporto (NA, Narcotici Anonimi) la aiuta a capirlo: la fa riflettere sulle somiglianze tra la relazione con Jules e l’assunzione di droghe –l’ossessione, le emozioni, l’astinenza.
All’obiezione di Rue:
“ok, ma questa –la relazione- è una cosa buona”, lui risponde “e la droga non era bella, la prima volta che l’hai provata?”
Maddy e Nate, una storia di Dipendenza Affettiva
La storia di Maddy e Nate è una storia di dipendenza affettiva, quella che si instaura tra due persone danneggiate in modi molto diversi.
Nate cresce in una famiglia disfunzionale, dove violenza e manipolazione sono all’ordine del giorno, in modo più o meno aperto. Il padre è un uomo di successo, ossessivo e violento, ma Nate ne ammira la forza, quella forza di volontà –che può diventare prepotenza e sopraffazione- che si dedica a sviluppare durante l’adolescenza: si allena e diventa un atleta, eccelle rapidamente nel baseball e nella carriera scolastica, si nutre delle proprie vittorie e della sua popolarità. Non parla molto con il padre, ma non ne ha bisogno: si capiscono, e abbracciano lo stesso stile di vita. In compenso disprezza la madre, che considera “debole e influenzabile”, e che vive sottomessa al marito.
Maddy, lo stereotipo della dipendente affettiva, viene da una situazione molto diversa. Maddy è bella, e ne è consapevole. Cresce tra trucco e concorsi di bellezza; la sua confidenza la rende speciale.
La madre è un’estetista; è lei a mantenere la famiglia mentre il padre, un innocuo alcolista, non riesce a tenere un posto di lavoro, e rimane a casa, quasi invisibile, a guardare la tv. I genitori non parlano tra loro, e la madre –a sua volta dipendente affettiva- si sacrifica in un matrimonio infelice e privo di amore. Maddy, crescendo, impara dai genitori cos’è l’amore, e anche ciò che non vuole dall’amore, quello che a un certo punto rinfaccerà alla madre; cerca una persona che “le guardi le spalle”, una figura maschile forte e protettiva. Ed è proprio quello che trova in Nate.
Nate e Maddy si attraggono come calamite, e instaurano subito una relazione interdipendente che si basa sul possesso reciproco, in modi diversi: Maddy accetta di essere una “proprietà” di Nate e a sua volta lo possiede, lo manipola con la sua femminilità ottenendo da lui sostegno e vantaggi materiali; Nate ama l’idea di essere il protettore di Maddy, lo fa sentire forte e sicuro di sé.
Entrambi ricavano autostima dalla relazione, e perpetuano i cicli di dipendenza facendosi stare male a vicenda, arrivando poi anche ad aperta violenza fisica, che Maddy tollera e nasconde: dopo un episodio in cui è stata appena assalita da Nate, riportando lividi, si sente nauseata, e scoppia a piangere davanti allo specchio;
“non era la violenza a spaventarla, ma il fatto di sapere che, qualunque cosa lui avesse fatto, l’avrebbe comunque amato”.
Scopriamo in Nate una persona dall’enorme carico –sepolto- di aggressività, evidente da atti di delinquenza e molestie sessuali più e meno gravi, e soprattutto dal raptus violento che scoppia dopo una lite con il padre, in una memorabile scena in cui Nate si irrigidisce, urla, batte i pugni e la testa all’indietro sul pavimento, sfogando una rabbia profonda ed atroce.
Maddy e Nate si lasciano spesso, ma inevitabilmente si ricongiungono. Nell’ultima puntata assistiamo a un breve dialogo tra loro che lascia senza fiato per la sua sincerità e consapevolezza, e allo stesso tempo per la contraddizione insita nella loro dipendenza.
Maddy: sai, ti odio. Sei violento, psicopatico, e la maggior parte del tempo odio davvero il modo in cui mi fai sentire.
Nate: lo so.
M: non ci fa bene.
N: lo so.
M: intendo che non dovremmo stare insieme.
N: lo so.
Guardandoli, le amiche di Maddy riflettono sulla loro relazione, e su quanto l’amore possa essere oscuro. È interessante che una di loro risponda:
“si, ma potrebbe essere specifico al loro tipo di amore”
catturando senza volerlo la differenza tra i tipi di amore, e la sfumatura oscura della dipendenza.
Cassie, McKay, Kat e il dramma della Dipendenza
La storia è piena di personaggi danneggiati e confusi, che sviluppano varie dipendenze tentando di dare un ordine alla loro vita.
Pensiamo a Cassie, una ragazza bella e molto dolce che “si innamora di ogni ragazzo che frequenta”, e si concede incondizionatamente, venendo puntualmente umiliata.
McKay che, spinto dai genitori a raggiungere l’eccellenza scolastica, odia la pressione a cui è sottoposto ma allo stesso tempo non può fare a meno dell’approvazione del padre per sentire di avere un valore e tenere in ordine i pezzi della sua vita, anche a costo di rinnegare la sua natura, in fondo timida e sensibile, in un mondo che gli richiede aggressività e competizione.
Kat, piena di talento artistico, che vive il dramma dell’essere troppo grassa, e finisce per riversare la sua creatività nella sessualità, vendendo materiale pornografico online, convinta, in fondo, che nessuno potrebbe mai amarla.
Euphoria: non una serie per tutti
Forse alcuni vorrebbero relegare Euphoria alla categoria di serie per adolescenti, ma credo che, viste le tematiche e il modo di trattarle, Euphoria sia molto più per adulti che per adolescenti.
È vero, i protagonisti sono molto giovani, ma si trovano di fronte a circostanze talmente intrecciate nella vita adulta e comuni a tutte le persone adulte –talvolta anche troppo-, che sarebbe una bugia dire di essere totalmente estranei alle loro problematiche e ai loro drammi; drammi che, comunque, si svolgono fuori dai muri scolastici.
Come in America, in Italia Sky ha deciso di accompagnare Euphoria con un’attività di sensibilizzazone e supporto, mettendo a disposizione un numero verde, in collaborazione con l’AUPI (Associazione Unitaria Psicologi Italiani), per chi sentisse di aver bisogno di aiuto.
Euphoria non è una serie per deboli di cuore.
Ma chi trova il coraggio di andare fino alla fine ne esce arricchito. Riuscire ad riconoscere ed accettare le debolezze degli altri non è cosa da tutti i giorni, ma ancora più difficile è vedere le nostre debolezze, e accettarle, perché è il primo passo per diventare più forti. Euphoria non tratta solo di adolescenti, o di abuso di sostanze, ma intreccia molti altri temi comuni nelle nostre vite, con diverse sfumature.
In Euphoria ci scorrono davanti le vite e i drammi di tanti personaggi, e un piccolo pezzettino di noi si riconosce in ognuno di loro. Vedere l’intera serie e riconoscere quei pezzettini, e poi lavorarci, è una cosa che mi sento di consigliare a chiunque.