La mia passione, le mie risorse
Sono cresciuta in una famiglia in cui l’amore e la predisposizione per l’arte era forse l’unica cosa che accomunava due genitori fragili. Per me è stato facile capire da subito che quella era la cosa che mi appassionava di più.
Ero una bambina vulcano, incapace di fermarmi, solo il disegno mi permetteva lunghe ore di pace, ricordo che in quei momenti tutto intorno a me si fermava, esistevo solo io, i miei colori e i miei fogli bianchi pronti a prendere vita.
In quei momenti ciò che facevo era solo e soltanto per me.
Ora so che quello era il “mio dietro le quinte”. Quel luogo in cui accucciarmi e riposarmi prima di salire sul palco in cui dovevo assolutamente stare per dire:
“Hey, ci sono, guardatemi”.
E così è stato, per tutta la vita e l’arte è diventata il mio lavoro.
La Dipendenza Affettiva ti toglie tutto
Il mio rapporto da dipendente affettiva vissuto con un uomo maltrattate mi aveva tolto anche quello.
“Non è un lavoro, bisogna alzare il culo per lavorare non stare seduti a dipingere”
Nonostante quel “non alzare il culo” come lo chiamava lui era quello che mi permetteva di pagare le bollette a fine mese e di dare cibo, vestiti e anche qualche sfizio al mio bambino.
Ed è così che lentamente anche quello che da sempre faceva parte della mia vita se ne andò trascinato da pezzi di me che piano piano mi lasciavano rendendomi sempre più invisibile.
I miei colori si seccavano chiusi in scatole prive di luce, i pennelli prendevano polvere diventando grigi, i fogli rimanevano bianchi, senza vita.
Ci sono stati attimi in cui mi chiedevo se fossi ancora in grado di disegnare, dipingere, sfumare.
Poi smisi di chiedermi anche quello.
E senza le mie risorse tutto divenne abisso
Non contavo più le volte in cui provavo a interrompere la mia relazione, lo lasciavo, spesso, ma poi l’ansia mi attanagliava la gola e io sentivo di avere bisogno di lui si… proprio come una droga.
Sai che ti farà male, sai che ti trascinerà sempre più giù ma non puoi più farne a meno.
Solo un paio di mesi prima della mia definitiva chiusura a quel rapporto malato mentre ero sul divano con lui, sentii quella voce che mi metteva in contatto con una delle mie risorse più importanti, che pensavo ormai morta ,chiamarmi.
Mi trascinai, si esatto trascinai, perché quella dipendenza mi aveva portato ad essere una manciatina di carne e ossa, sembravo il fantasma di me stessa che in qualche modo ancora si intravedeva, presi un foglio e cominciai a disegnare.
Non pensavo a cosa stessi delineando ma quando smisi al centro del foglio una donna bendata, con la bocca cucita,sanguinante e le mani che tappavano le orecchie stava dietro ad un angelo con due ali.
Una bianca e l’altra nera.
Ricordo che fissai il foglio per capire come riempire tutto quello spazio vuoto intorno a loro.
Vuoto.
Di nuovo il nulla.
Di nuovo non sentivo più niente e a quel punto la voce di lui mi arrivò come da un altro pianeta “caspita, spero non siamo noi due” disse sbirciando distrattamente il mio foglio per poi tornare a guardare la televisione.
Misi via tutto. Ancora vuoto.
La mia arte, il mio lavoro, le mie capacità nuovamente messe via perché l’unica cosa che importava era gestire gli ormai brevissimi “up” che quella “droga” mi dava e i tantissimi “down” in cui mi gettava.
Ho compreso di essere dipendete affettiva… e poi il “click”
Parecchio tempo prima durante un incontro a cui stavo partecipando per le partners di persone dipendenti da sostanza (il mio era un rapporto co dipendente) venne a trovarci una dottoressa del Centro Dipendiamo di Bergamo.
Ci lesse un libro “Alla ricerca del pezzo perduto” e ci parlò di Dipendenza Affettiva.
Fu la prima volta in cui ne sentii parlare, ma in quel momento non mi sfiorò la possibilità di esserne io stessa affetta, nonostante mi sentissi quella “o”, di cui parlava il libro, in cerca del suo pezzo mancante.
Era lui ad avere un problema, un problema da sostanza ed io ero lì per salvarlo senza rendermi conto che lui era la sostanza che stava rovinando me.
Credo che ci sia sempre un “click”, come lo chiamo io. Qualcosa che ad un certo punto ti fa dire:
“Basta”!
Nel mio caso è stata la paura. La paura di lasciare un figlio senza la sua mamma.
Fu così che mi tornarono alla mente quelle due parole: “Dipendenza Affettiva”.
Perché il nostro inconscio probabilmente lo sa cosa ci sta succedendo e le aveva gelosamente custodite in quell’abisso in cui giacevo da tempo.
Dopo un mese dalla definitiva chiusura del rapporto ero in giardino con due delle mie più care amiche che si affannavano per organizzare (organizzarmi) un week end al mare.
Io in preda all’astinenza da quella droga che mi stava distruggendo la vita, lottavo contro l’ansia che mi toglieva il respiro, i brividi, la nausea, le vertigini .
Dovevo concentrarmi su altro.
Ed ecco che ripresi quel foglio con quelle figure al centro e lo spazio bianco intorno.
Cominciai a scrivere, le parole uscivano dalla matita e dal carboncino come se fossero state lì da sempre pronte ad esplodere.
Le mie Amiche fecero finta di niente continuando a cercare gli hotel, anche se le immagino con scambi di sguardi sospetti e timorosi, le ringrazio per questo.
Quando finii guardai quel foglio e per la prima volta vidi la mia vita degli ultimi anni.
Quelle parole rosse che spiccavano sul foglio bianco che sovrastavano quelle più piccole, fragili e quasi sbiadite sotto di esse.
Avevo messo tutto lì ed era da quel disegno che tutto sarebbe ripartito.
Ora dipingo senza sosta.
Ho ricominciato a dire si ai tanti ritratti che mi vengono chiesti, a progetti importanti, ho ricominciato a lavorare e fare quello che da sempre so fare.
Dipingere, creare, trasformare.
Anche il mio stile è cambiato perché io lo sono.
La consapevolezza e la cura: la mia salvezza
Dare un nome a ciò che mi stava accadendo è stata la mia chiave di svolta. Sapevo finalmente cos’avevo e sapevo che si poteva curare.
Il mio percorso con la Dottoressa Stucchi mi ha resa finalmente una mamma capace di dare al proprio figlio il nutrimento affettivo di cui necessita, e una figlia in grado di far pace con la rabbia e il vuoto che da sempre l’accompagnavano.
Dopo qualche mese una donna con le ali stracciate giaceva sull’angolo di uno dei miei fogli e spiccò il volo con ali nuove.
Più forti e consapevoli.
Consapevoli di avere un vuoto da colmare che appartiene solo a me e che solo io posso curare. Quel vuoto ogni tanto torna e io sto imparando ad ascoltarlo, ad accoglierlo, a coccolarlo.
Spesso quando si fa sentire sorrido perché sento di avere finalmente la grande opportunità di riempirlo con ciò che serve.
Il mio tempo, il mio amore.
Ora sono una donna consapevole del proprio valore, delle proprie capacità e, come mi disse un giorno la mia dottoressa “ripara bussole”:
“… con le ali aperte ma i piedi ben piazzati a terra sei finalmente libera di decidere chi essere e dove andare….”
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